Skip to main content

La restituzione del patrimonio culturale africano: un tassello verso la decolonizzazione.

C’è un anno che nella storia africana viene riconosciuto, a livello internazionale, di estrema importanza e definito come “l’anno dell’Africa”, il 1960. Fu allora che molte colonie africane diedero vita a un lungo e complesso processo di decolonizzazione dichiarando la loro indipendenza dalle potenze europee. I movimenti indipendentisti e di liberazione svolsero un ruolo fondamentale nella conquista dell’indipendenza. Grazie a essi, infatti, si diffuse un vento di cambiamento che portò alla formazione di una coscienza nazionale e contribuì attivamente alla decolonizzazione progressiva del continente africano.

Nonostante il passare degli anni, la necessità di continuare a percorrere la via della decolonizzazione si manifesta, oggi più che mai, con la disamina di numerose questioni che spaziano dalle politiche internazionali al pensiero decoloniale sino ad affrontare tematiche che riguardano l’arte e la cultura africana. È proprio a tal proposito che sempre più crescente e attiva è una mobilitazione internazionale che all’unanimità sta reclamando la risoluzione di una faccenda risalente al periodo coloniale e che ancora oggi ne rappresenta il retaggio: il saccheggio di opere e manufatti africani, custoditi presso musei, istituti di ricerca e università europee, subita dall’Africa durante il colonialismo europeo. La restituzione viene, infatti, richiesta a gran voce dagli africani quanto dagli europei come rimedio all’espropriazione culturale e identitaria impropria avvenuta nel corso dei secoli coloniali e come gesto tale da poter intervenire positivamente sulla consapevolezza intima di un passato apparentemente lontano, nel tempo e nello spazio. 

Oggi il dibattito è più vivo che mai anche se le radici della battaglia contro l’espropriazione del patrimonio artistico e culturale affondano già nel primo periodo della decolonizzazione. È infatti tra gli anni Cinquanta e Settanta che, con la Convenzione dell’Aja e la Convenzione dell’Unesco, si cerca di proteggere dal trasferimento illecito opere e manufatti. Non avendo, però, alcuna validità retroattiva sono state esigue e saltuarie le restituzioni.

Tuttavia, sono in aumento esempi di attivismo e restituzione che mostrano quanto stia crescendo la coscienza decoloniale nei confronti del patrimonio artistico e culturale sottratto. GROUP50:50, per esempio, è un collettivo di artisti (attori e musicisti) provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo, dalla Svizzera e dalla Germania che porta in scena nei teatri internazionali The ghosts are returning. Uno spettacolo teatrale multimediale e musicale di denuncia contro i crimini (neo)coloniali che, oltre tutto, affronta la tematica della restituzione dei beni culturali e nello specifico di sette scheletri pigmei che un medico svizzero portò all’Università di Ginevra, nel 1952, per scopi di ricerca.

Un’altra attività di particolare interesse è quella svolta dal progetto Looty di un collettivo di artisti nigeriani. L’idea è quella di recuperare digitalmente i manufatti, nello specifico i Bronzi del Benin, saccheggiati alle comunità africane attraverso un processo legale di fotografia e rendering 3D per la creazione di opere NFT destinate alla vendita. Così facendo, il collettivo riesce non solo a scavalcare il macchinoso iter di restituzione che, anche se in molti casi ha già avuto inizio, risulta comunque lento e incerto, ma anche a destinare una parte del ricavato per finanziare artisti africani emergenti.

A Dakar, nel dicembre del 2024, durante l’inaugurazione della mostra Demoon Dikkaat – The Returned, dedicata alla spada di El Hadji Oumar Tall che è stata restituita dalla Francia al Senegal nel 2019, il direttore generale del Musée Des Civilisations Noires ha riferito la necessità di recuperare il patrimonio culturale dell’Africa che si trova nei musei occidentali. Un impegno panafricano indispensabile che deve assumere ancor più forza e importanza nel confronto con gli stati occidentali per la ricostituzione della sovranità culturale del Senegal. 

Si potrebbe continuare ancora citando numerosissime altre iniziative che affrontano attivamente la questione legata alla restituzione delle opere africane. Vi sono anche degli esempi concreti di restituzione come 26 opere che erano state sottratte dalla Francia al Palazzo Abomey alla fine del XIX secolo e adesso ritornate alla Repubblica del Benin o il contratto tra l’Ethnologisches Museum e la Nigeria per il trasferimento di proprietà di 512 oggetti sottratti durante una spedizione britannica del 1897 al Regno del Benin. È importante notare che, sebbene queste iniziative rappresentino passi significativi verso la restituzione del patrimonio culturale africano, il numero totale di opere restituite finora è relativamente esiguo rispetto alle decine di migliaia di manufatti africani presenti nelle collezioni europee. Rimane quindi molto lavoro da fare.

Tuttavia, la restituzione del patrimonio culturale africano non deve essere vista come un punto di arrivo, ma come un tassello fondamentale in un più ampio processo di riconciliazione e cooperazione tra l’Africa e l’Occidente. Restituire opere e manufatti sottratti rappresenta una sfida culturale e politica che richiede il coinvolgimento non solo degli stati e delle istituzioni, ma anche della società civile e delle comunità artistiche. 

Quindi, guardare al passato con uno sguardo critico non è solo un dovere storico, ma una premessa necessaria per costruire un futuro decolonizzato.