Il mare da bere: ottenere acqua dolce da quella salata come soluzione alla crisi idrica
Sempre più paesi del continente africano stanno scommettendo su questo modello alternativo all’apparenza efficiente, ma ad alto consumo energetico e ad alto impatto ambientale. E soprattutto: chi possiede impianti di desalinizzazione in Africa? Quali sono le conseguenze sull’ambiente di questo processo? Chi beneficerà davvero dell’acqua dissalata? Oggi, quasi tre disastri naturali su quattro sono legati all’acqua. Entro il 2025, due terzi della popolazione mondiale vivrà in territoti colpiti dallo stress idrico. È già il caso del Nord Africa, dove il deficit d’acqua supera i 20 miliardi di metri cubi in Marocco e in Egitto. Rabat mira alla costruzione di una ventina di stazioni di desalinizzazione entro il 2030, che coprirebbero il 50% del suo fabbisogno di acqua potabile. Il Cairo ha messo 3 miliardi di dollari sul tavolo, per raggiungere 3,3 milioni di m³ di acqua dissalata al giorno nel 2025, rispetto agli 830.000 m³ attuali. Questa soluzione è già stata ampiamente provata in Medio Oriente, che possiede il 50% delle capacità globali di desalinizzazione. Negli Emirati, in Kuwait e in Qatar, il 90% dell’acqua potabile proviene dalla desalinizzazione. Tuttavia, si tratta di una tecnica che richiede l’impiego di grandi quantità di combustibili fossili e che indebolisce gli ecosistemi marini. Il ministro delle attrezzature e dell’acqua del Marocco, Nizar Baraka, ha annunciato il 4 dicembre 2023 in parlamento la costruzione di 16 impianti di desalinizzazione dal 2024 al 2030. Per una capacità totale di 1,49 miliardi di m3/anno, queste sedici unità sono previste su tutta la costa mediterranea e atlantica. Il ministro ha inoltre assicurato che sei impianti di 135 milioni di m 3 /anno sono attualmente in fase di completamento. Al momento, il paese dispone di quattordici stabilimenti operativi con una capacità di 192 milioni di m3/anno secondo i dati del ministro. Professore all’Istituto agronomico e veterinario (IAV), Mohamed Taher Sraïri ricorda che le autorità pubbliche puntano, entro il 2030, su una copertura del 15-20% del fabbisogno idrico del paese da parte di risorse idriche non convenzionali, in particolare da desalinizzazione dell’acqua di mare. Secondo Taher Sraïri si tratta di “una tecnologia che totalmente presenta ancora limiti ed incognite”. E continua: “quando annunciamo l’irrigazione di oltre 100.000 ettari con acqua dissalata, bisognerebbe domandarsi quale tipo di agricoltura può approfittare di tale risorsa. La risposta è: l’agricoltura convenzionale “. Il professore evidenzia anche un legame causa-effetto tra un comprovato aumento degli usi dell’acqua (in particolare per l’irrigazione) e il prelievo ed uso dell’acqua di mare. “L’agricoltura in Marocco – che consuma annualmente più dell’85% delle acque rinnovabili – si è storicamente basata sulle precipitazioni, poi siamo passati all’acqua delle dighe, venduta agli agricoltori da 0,5 a 0,6 DH/m3 dagli anni 1970. Oggi si è assistito ad un aumento delle aree irrigate con acqua proveniente dagli acquiferi sotterranei , con un ulteriore incremento di prezzo ed una impossibilità di verificare i volumi effettivamente prelevati, data la mancanza di monitoraggio dei prelievi idrici dal sottosuolo. Proprio a seguito di tale incremento nella richiesta di disponibilità di risorse idriche, si fa strada l’opzione della desalinizzazione, conclude l’esperto. L’unica alternativa risulterebbe, invece, la riduzione della domanda di idrica, “che equivarrebbe automaticamente ad un contenimento delle ambizioni del settore agricolo”. Lo sviluppo di sistemi di desalinizzazione, non deve tuttavia compromettere una adeguata educazione all’uso ed alla gestione della risorsa idrica (ad esempio in termini di perdite, spreco, recupero) a vantaggio di un modello agricolo intensivo, troppo avido di acqua e destinato all’esportazione, come quello del Marocco.